Acqua alta a Venezia, agonia senza fine

0
Il vaporetto ACTV sbalzato in riva degli Schiavoni: immagine simbolo dell'aqua granda del 2019.

È trascorso quasi un mese dall’aqua granda del 12 novembre, quella che ha raggiunto i 187 cm dallo zero idrometrico di Punta della Salute, la seconda più alta della storia dopo quella del 4 novembre 1966 di cui tre anni fa ricorreva il mezzo secoloLe foto del disastro hanno fatto il giro del globo riportando all’attenzione del mondo i troppi problemi irrisolti della città.

Su quella terribile notte sono stati versati fiumi di parole, di immagini, di video, una quantità immensa di testimonianze ha solcato Internet, una vera e propria aqua granda in versione social, un sovraccarico informativo senza precedenti.

Uscite da quel flusso ininterrotto all’insegna dell’hashtag #AcquaAltaVenezia alcune effigi sono entrate a viva forza nell’immaginario collettivo di questa alluvione, rimbalzando sulla Rete e facendosi tsunami per approdare infine, quando ormai il peggio era già passato, sui media tradizionali e, nei giorni successivi, sulla carta stampata. In questo video potete trovare una buona sintesi.

Quella notte le immagini e i video che si susseguivano in un loop ipnotico sui social, facendo progressivamente perdere le tracce dei loro autori, erano in effetti sempre le stesse: la memorabile sequenza di via Garibaldi trasformata in un fiume in piena; i tre motoscafi ACTV colati a picco a Sant’Elena dalla furia delle onde; il tweet disperato di Walter Mutti che stava perdendo la propria edicola, sradicata dalle fondamenta e che durante la notte sarebbe affondata nel canale della Giudecca; la barca sospinta in una calle e rimasta incagliata dopo il ritiro dell’acqua; il vaporetto “spiaggiato” in riva degli Schiavoni (quello della foto di apertura); le gondole ammassate sulle rive e contro i palazzi; l’acqua della laguna che tracima con prepotenza attraverso il portone dell’Hotel Gritti. Tristi icone di un’aqua granda memorabile che resteranno per sempre impresse nei nostri ricordi di spettatori impotenti.

Simboli, nient’altro che simboli, significativi e terribili, ma incapaci comunque di rendere appieno la tragedia di quella notte. Eccone alcuni che ho raccolto in questa galleria:

Questo invece è l’angosciante tweet di Walter Mutti che ha fatto il giro di Twitter (qui trovate un bel video sulla sua storica edicola):

Nei giorni successivi al disastro ho avuto modo di leggere, ascoltare, guardare. Un vero delirio comunicativo in cui ognuno di noi, investito o meno da ruoli professionali o istituzionali, si è sentito in dovere di dire la sua. A volte anche a sproposito.

Ho letto gli articoli e i post appassionati di tanti giornalisti e scrittori. Alcuni, purtroppo, cogliendo la ghiotta occasione, si sono lasciati andare alle solite immagini retoriche di cui i veneziani non hanno certo bisogno.

Ho visto le comparsate di politici avvoltoi che hanno approfittato del disastro per lanciare i soliti proclami, che tanto dietro l’angolo c’è sempre una tornata elettorale da conquistare. Unica eccezione, forse, il sopralluogo intriso di umanità del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Ho letto le affermazioni dei tanti che hanno pontificato sulle cause dell’alluvione, straparlando di Mose come se non ci fosse un domani. Anche quelle dei politici di turno i quali hanno detto che loro, di Mose, non sapevano nulla (quelli del Mose “a loro insaputa”…). Quel Mose non ancora finito, costato un patrimonio, che ha traversato una devastante stagione di corruzione e sulla cui efficacia ogni veneziano nutre forti dubbi, pur sperando con tutto il cuore che possa davvero funzionare quando sarà il momento. Quel Mose finito al 93%, peccato che nel restante 7% sia compresa l’intelligenza che comanda il tutto, incluso il software di controllo e gestione.

Quella notte, il 12 novembre, non ero lì, ma ho seguito l’evolversi della spaventosa marea (stranamente salita e scesa in pochissime ore) con tutti gli strumenti a mia disposizione: facebook, twitter, instagram, giornali on line, dirette video, chat con amici, app della marea, bollettini ACTV. 

Non ero lì, ma ho vissuto con empatica angoscia il susseguirsi delle previsioni che da 140 cm (un livello eccezionale ma non ancora tragico) sono state drammaticamente smentite, con i quattro toni delle nuove sirene di allarme insufficienti a comunicare ai cittadini il livello dell’onda che stava arrivando, giungendo in poche decine di minuti a 150, poi a 160, 170, 180, 190… La marea si è fermata a 187 cm, soltanto 7 in meno dello storico 194 cm del 1966. 

Il raffronto visivo col livello di 194 cm raggiunto nel 1966. 187 cm quello del 2019.

Quest’aqua granda si è rivelata molto più di un’acqua alta eccezionale. I suoi effetti sono stati amplificati dal fortunale che in concomitanza del picco si è scatenato sopra la laguna, un cosiddetto “ciclone tropicale mediterraneo”, un medicane, come si usa dire ora, uno strano oggetto meteorologico che ha portato venti ben oltre i 100 km orari che hanno spazzato la laguna travolgendo qualunque cosa galleggiasse.

Il giorno successivo le conseguenze si sono palesate in tutta la loro tragicità, con danni, gravissimi, che sarebbero trapelati nei giorni a venire.

Negozi e piani terra inondati dall’acqua maleodorante (perché si sa, a Venezia gli scarichi delle fogne vanno direttamente nei canali) con le paratie metalliche, che difendono soltanto fino a 160 cm, del tutto inutili.

Pontili e ormeggi danneggiati a tal punto che alcuni approdi sono stati fino a pochissimi giorni fa inservibili, rive semidistrutte, balaustre e muretti spazzati via.

Linee elettriche, telefoniche e Internet in tilt (la situazione si sta normalizzando giusto adesso).

Calli e campi, ingombri di mobili e masserizie rovinati dall’acqua salata, disertati dai turisti ma affollati di tanti ragazzi, soprannominati gli angeli di Venezia, accorsi a dare una mano a chi ne aveva bisogno.

Isola di Pellestrina letteralmente sommersa, con le pompe che avrebbero dovuto impedirlo andate subito fuori uso per via delle centraline poste – vero colpo di genio – al livello stradale. Purtroppo un uomo è deceduto nel tentativo di svuotare dall’acqua la propria casa.

A Pellestrina c’è stata un’ecatombe di elettrodomestici che ha generato distese di frigoriferi cucine forni lavastoviglie congelatori, ammassati lungo la riva della laguna in attesa che i mototopi Veritas trovassero il tempo per portarle via. 

Librerie a mollo e musei danneggiati: Querini Stampalia (cui la Biblioteca Oliveriana di Pesaro ha dedicato una simbolica raccolta fondi), Conservatorio Benedetto Marcello, libreria Toletta, libreria Marco Polo, libreria Acqua Alta, libreria Bertoni, libreria Mare di Carta, e molte altre. 

Soprattutto, tante chiese allagate, praticamente tutte quelle della città, in primis la Basilica di San Marco, con le pavimentazioni antiche corrose dal sale e la cripta invasa dall’acqua come non succedeva dal 1966 e che è diventata il simbolo della Venezia in pericolo, né più né meno come allora. Come se non fosse trascorso più di mezzo secolo.

L’aqua granda, col suo livello record di 187 cm, è stata terribile, ma la vera novità è consistita nel susseguirsi quasi quotidiano e per due settimane di livelli di marea sopra i 120 cm. Una sequenza sconcertante che non ha eguali da quando si fanno le misurazioni, in una settimana quattro volte sopra i 140 più uno sciame da 120 e 130. Un incubo per i veneziani.

Ritorno a Venezia

Meno di due settimane dopo l’evento disastroso sono tornato a Venezia. Occasione data dal partecipare all’assemblea cittadina sul problema dell’acqua alta (sabato 23 novembre a San Leonardo) e all’incontro sul referendum per la separazione da Mestre (domenica 24 all’Ateneo Veneto). Per fortuna mi sono portato gli stivali di gomma perché la mattina del 24 il livello di marea è salito a 130 cm e senza non sarei riuscito a raggiungere l’Ateneo. Fortuna ha voluto che il vento di scirocco sia girato all’ultimo, così che i previsti 140 cm sono sfumati.

Ho toccato con mano le ferite ancora aperte. Tanti negozi chiusi, trasporti cittadini in difficoltà, ovunque i segni della devastazione portata dall’aqua granda.

Sabato pomeriggio ho attraversato Venezia con un’amica per andare all’assemblea a San Leonardo. Una città quasi surreale, con calli e campi restituiti ai veneziani in cui i turisti erano una rarità, come succedeva negli Anni Settanta e Ottanta. Soltanto un mese prima, nel pomeriggio di sabato 26 ottobre, non riuscivo letteralmente a camminare tale era l’affollamento di turisti. Non sono stato l’unico a provare quella sensazione.

La folla a San Leonardo per l’assemblea pubblica sull’acqua alta.

A San Leonardo, i veneziani assiepati hanno mostrato tutta la propria tenacia di “resistenti”, ma durante l’assemblea sono suonate le sirene dell’acqua alta, a preannunciare il picco previsto in serata, e ho visto l’angoscia dipingersi sui volti dei presenti, provati da due settimane di allarmi continui. Alcuni si sono allontanati in tutta fretta per correre a mettere in sicurezza case e negozi.

Venezia e l’acqua alta come soggetto per i fotografi di mezzo mondo.

Domenica mattina ho invece percorso la direttrice riva degli Schiavoni – Piazza San Marco – campo San Fantin, giusto nell’orario del picco di marea mattutino e ho scattato, con un certo senso di colpa, lo ammetto, alcune fotografie. Ho assistito a un fenomeno per me inedito: quello di Venezia che durante l’acqua alta si trasforma in un set per fotografi in cerca dello scatto perfetto e per troupe televisive a caccia della ripresa pittoresca.

Ho lasciato perdere in fretta, preferendo fare due chiacchiere con i baristi della piazza, intenti a tenere sotto controllo il livello della marea, servendo caffè e brioche fino a che fosse possibile, ostentando la consueta ironia lagunare.

Ho preferito parlare con i custodi di palazzo Ducale, assediati dall’acqua, discutendo di referendum, di sovraccarico turistico, di persone che telefonano per sapere a che ora chiude la città (non ci credevo ma mi hanno assicurato che ogni tanto succede davvero), di sprovveduti che si fanno il segno della croce davanti al portale del palazzo pensando sia l’ingresso della Basilica…

Ho visto comitive di turisti, sbarcati dai lancioni approdati, nonostante (o proprio per effetto de) l’acqua alta, ai pontili di riva degli Schiavoni, con impermeabili variopinti e copriscarpe di plastica colorata – così fuori luogo in una città sommersa – accalcarsi vocianti sulle passerelle o lungo le calli inondate, senza alcun rispetto per i negozianti che lottavano per arginare la marea. I voyer dell’acqua alta sono inarrestabili, tant’è vero che la sera del 12 c’era chi in piena alluvione ha nuotato in piazza San Marco. Elogio della stupidità.

Ho faticato per raggiungere l’Ateneo Veneto, che sorge a due passi dal Teatro La Fenice, perché la maggior parte delle calli richiedeva stivali alti e i miei, per pochi centimetri, non erano sufficienti. Avrei voluto fare un salto alla Salute, ma il ponte di barche votivo era chiuso causa acqua alta. Giustamente.

Ho bevuto l’ennesimo caffè in un baretto invaso da 30 cm d’acqua, con le bariste sorridenti e gentili, pronte ad affrontare un’altra dura settimana di passione.

Dopo l’affollatissimo incontro all’Ateneo Veneto sono andato alla Salute riuscendo a transitare per il ponte votivo, che ormai il livello dell’acqua era calato. Ho acceso, come da tradizione, un cero. Era una vita che non lo facevo, da quando abitavo a Mestre e con la famiglia ci si recava alla chiesa della Madonna della Salute in via Torre Belfredo  – l’equivalente della basilica per i veneziani di terraferma – e le bancarelle sotto i portici erano una festa per noi bambini. Bei ricordi.

Dalla Salute ho assaporato un viaggio in bateo fino alla Ferrovia, nel quale per la prima volta dopo tanto tempo ho potuto “muovermi” in coperta in tutta libertà, spostandomi da un lato all’altro del vaporetto per ammirare il panorama senza dover ingaggiare defatiganti corpo a corpo con i turisti. Esperienza indimenticabile.

Epilogo

In questi ultimi giorni sono successe molte cose. 

La riunione a Roma del “comitatone” che ha rifinanziato la Legge Speciale per Venezia (e ci mancava che non lo facesse).

L’agognato test di sollevamento delle paratoie del Mose alle bocche di porto di Malamocco (lo stesso test andato a monte lo scorso ottobre a causa di forti vibrazioni dei tubi – eliminate, ça va sans dire, con qualche staffa in più…). Ora si parla di poter “alzare” il Mose già il prossimo autunno. Un Mose di “emergenza” lo hanno ribattezzato. Staremo a vedere.

Il referendum dell’1 dicembre che è stato disertato dai cittadini, sprecando una grande occasione. Nonostante il 66,11% di Sì (addirittura  83,45% nel centro storico e 85,73% nell’estuario) è stato tutto inutile perché con il 21,7% di votanti non si è raggiunto il quorum. Peccato. Ora restano molti strappi da ricucire, in attesa della nuova tornata elettorale per l’elezione del sindaco. Chiunque si candiderà, non potrà però non tenere conto dei quasi trentamila votanti che si sono espressi per il Sì.

Ah, dimenticavo, una buona notizia: l’edicola di Walter Mutti, divenuta un simbolo della rinascita dopo l’aqua granda, con l’incredibile raccolta fondi spontanea e addirittura l’incontro dell’amico Walter col presidente Conte, è stata rinvenuta intatta dai Vigili del fuoco sul fondo del canale della Giudecca. Purtroppo durante il recupero si è danneggiata ma forse potrà essere restaurata. In bocca al lupo!

Previous articleUn SÌ al referendum: per salvare Venezia
Next articleOmicidi tra Pesaro e Urbino: un mio racconto in Delitti di Dio di Alter Ego