Un film imperdibile che consiglio col cuore, anche se da tanti anni non ne vedevo uno che mi rattristasse al punto da farmi stare male fisicamente. Teorema Venezia, documentario del regista altoatesino Andreas Pichler, è riuscito infatti nell’ardua impresa. A pensarci bene non si è trattato proprio di tristezza, ma di incontenibile rabbia della rassegnazione, di cupo dolore per l’amaro, ineluttabile destino di una città.
Il picco del dolore giunge con lo scambio di battute tra uno degli intervistati, l’immobiliarista Pietro Codato, e la moglie Federica. La scena si svolge nella cucina del loro appartamento ed entrambi sono intenti a preparare il pasto.
Lei: «Dici che non è possibile fare niente?»
Lui: «Ormai, cosa vuoi fare?»
Lei: «È tutto perduto?»
Lui: «Assolutamente». Pausa. «Assolutamente. È tutto perduto.»
Facciamo un passo indietro.
Teorema Venezia, un film del 2012 prodotto dalla tedesca FilmTank (vedi anche qui e qui), è uscito il 20 ottobre scorso in un DVD di CG Entertainment per la collana POPOLI doc. Il caso ha voluto che giusto il 25 ottobre, reduce dal mio viaggio a Milano in occasione della cerimonia di premiazione di IoScrittore 2015, trovandomi alla Stazione Centrale e scoprendo di avere a disposizione ancora una mezz’oretta prima della partenza del treno per il ritorno, decidessi di farmi l’ennesimo giro alla libreria Feltrinelli. È così che mi sono imbattuto, del tutto casualmente, nel DVD che occhieggiava da uno scaffale. D’altra parte, con una copertina del genere, non potevo non notarlo.
Devo ammettere che la copertina mi aveva lasciato alquanto perplesso: ero certo che quella stessa fotografia, tempo prima, fosse stata a lungo condivisa su Facebook, e che all’epoca l’avessi classificata come fake. Per quale motivo? Perché la nave è troppo grande rispetto agli edifici circostanti, perché l’illuminazione e le ombre sono incongruenti e perché, soprattutto, la posizione della nave è improbabile, con la prua che suggerisce stia imboccando il Canal Grande invece che, come dovrebbe, il Canale della Giudecca.
Ma poco male, in fondo una copertina è fatta per attirare l’attenzione, e quella c’era riuscita perfettamente. Ho afferrato il DVD per leggere tutto quanto ci fosse di leggibile. Innanzitutto la tagline sopra il titolo:
Se c’è ancora un cuore che pulsa in questa città è quello dei veneziani che sono rimasti
Interessante. E poi, sul retro:
Venezia come emblema dell’abuso spregiudicato delle bellezze del nostro paese.
Sempre più interessante. E ancora:
Folla in lacrime al Vancouver Film Festival per il documentario che racconta la mutazione da centro urbano a parco giochi
Quest’ultima affermazione (le lacrime…) mi era sembrata a dire il vero un tantino esagerata. Mi sarei dovuto presto ricredere. Infine, per concludere:
Venezia è romanticismo allo stato puro ed è il sogno di turisti di tutto il mondo. Ma cosa vuol dire vivere a Venezia? Per colpa della costante crescita del turismo, la vita quotidiana originaria dei veneziani ha subíto un crollo totale, ovvero non esiste più. Il film racconta la vita di vari personaggi veneziani nell’arco di un anno, mostrandoli come immersi nel vortice del turismo: un settore che divora le basi stesse della loro esistenza.
Ce n’era insomma abbastanza per dirigermi senza esitazione verso le casse, ma mi ha trattenuto un ultimo sguardo alla lista dei contenuti speciali, rivelandomi la presenza del video: “L’ultimo giorno delle Poste Centrali di Venezia”. Già, le Poste Centrali, ospitate dagli anni Venti nel Fontego dei Tedeschi, proprio quell’antico palazzo venduto (o per meglio dire svenduto) dal comune di Venezia a Benetton e al centro di tante polemiche per l’insano progetto di ristrutturazione, affidato alla controversa archistar olandese Rem Koolhaas, volto a trasformarlo in un lussuoso centro commerciale. A pochi metri dal ponte di Rialto. Ma trattasi, questa, di materia densa che meriterebbe un post dedicato…
A ogni modo, le affinità con Acqua morta erano davvero tali e tante (e altre ancora ne avrei scoperte in seguito) che non potevo esimermi dal mettere le mani su quel documentario.
La cifra distintiva di Teorema Venezia (adoro il titolo in tedesco, con quegli aspri suoni teutonici, Das Venedig Prinzip, e trovo molto azzeccato quello inglese, The Venice Syndrome, con quel retrogusto che sa di patologico) è che non esiste la voce fuori campo del commentatore, le uniche voci sono quelle dei protagonisti, dei veneziani intervistati dal regista, se di interviste si può parlare. Poche rare concessioni “didascaliche”, a puro scopo chiarificatorio, tramite brevi frasi stampate in sovrimpressione per fornire allo spettatore alcuni dati quantitativi, per il resto soltanto veneziani che spesso parlano in quel loro buffo italiano dalla cantilenante cadenza lagunare che solo un conterraneo come me può apprezzare fino fondo. A volte, durante la narrazione, i protagonisti si lasciano andare a scambi di battute in dialetto molto stretto con altri veneziani, episodi ben lontani da quell’oleografico “pittoresco” d’accatto in cui troppo spesso la città viene imprigionata. Piuttosto, aprono nella narrazione squarci di vita vera. Perché Venezia è così.
Carmen Zinno, nella breve scheda sul film pubblicata nel catalogo del Festival dei Popoli 2012, ha scritto già tutto, per cui mi perdonerà se la citerò integralmente:
Come un reperto da museo, Venezia è intrappolata dalla sua bellezza. Conta 58.000 abitanti contro i 60.000 visitatori giornalieri. Travolti dallo sciame senza requie di turisti, che fotografano senza osservare e passeggiano cronometrandosi, i veneziani del film si raccontano, guidandoci in un viaggio accorto, denunciante, sdegnoso. Tocchiamo il dietro le quinte dei carnevali, la malta dei muri dei palazzi incantati, il quotidiano scorrere di chi vive all’interno della teca in cui langue una Venezia straziata dal business e dal marketing. Le strade d’acqua, di notte, diventano un cantiere luccicante dove si muovono i suoi affatto serenissimi abitanti, avvezzi ormai, a “convivere con i barbari” di giorno e a passeggiare in piazza San Marco solo a notte fonda. “Ogni cittadino veneziano che lascia la sua città, lascia anche un modo di vivere che si perde irrecuperabilmente” osserva A. Pichler, e ciò che rimane “è uno scenario svuotato di ogni vita vera e di fragili facciate, una specie di Disneyland”. Il silenzioso fragore delle navi da crociera che s’impossessa dello schermo, come del paesaggio, restituisce alla città una poesia visiva quasi apocalittica costringendoci a confrontarci con i sogni dozzinali del turismo take away.
Se ancora non siete convinti, date un’occhiata al trailer in italiano, e magari godetevi la complice musica di Jan Tilman Schade:
The Venice Syndrome (trailer in inglese)
Das Venedig Prinzip (trailer in tedesco)
I personaggi principali, il cui vissuto entra nell’implacabile obiettivo del regista, sono quattro:
- Pietro Codato, immobiliarista pentito, stanco di non poter dire ai propri facoltosi clienti la verità su una città che sta crollando, che pensa seriamente di abbandonare Venezia perché, come abbiamo visto, «è tutto perduto».
- Teodora Olga (Tudy) Sammartini, indomita contessa italo-americana, viaggiatrice, studiosa, donna d’altri tempi (classe 1931) che ha “rinunciato” alla propria nobilità ritirandosi a scrivere libri in un angolo della Venezia vera sopravvissuta allo scempio, e che non si fa scrupolo di sbeffeggiare le autorità locali.
- Giorgio Gross, solare ex gondoliere che negli anni ’50 spiegò a Dino Risi e ad Alberto Sordi come ci si muove quando si rema su una gondola e che ora assiste con ironica rassegnazione al dilagare del “nuovo” turismo con una stagione che dura “13 mesi su 12”.
- Flavio Scaggiante, trasportatore di merci sopraffatto da una struggente malinconia che col suo mototopo ha aiutato a traslocare centinaia di famiglie e che, sfrattato dal proprio appartamento, è costretto a trasferirsi anche lui in terraferma.
Di personaggi ce ne sono molti altri, non meno importanti: la guida turistica, l’intromettitore (abusivo? non è dato sapere), l’organizzatrice di feste a palazzo, l’incaricato del terminal passeggeri del porto, il leader della protesta popolare al mercato di Rialto, gli avventori di bar e osterie, panettieri, pesciaoli e fruttivendoli….
Ma il personaggio che si staglia su tutti è Tudy Sammartini, donna forte, tenace, indipendente, eccezionale, sopra le righe. Leggete il suo blog, date un’occhiata alla sua idea di turismo sostenibile con cui si guadagna da vivere e, soprattutto, guardatevi il documentario, non ve ne pentirete. Cito soltanto un episodio, quando Tudy, che abita nel sestiere di Dorsoduro, a non molta distanza dal Canale della Giudecca da cui transitano le grandi navi, descrive le forti vibrazioni dovute al loro passaggio, al punto che ha dovuto fissare col biadesivo i quadri alle pareti perché non cadessero… Impressionante. Il pensiero va subito al pamphlet contro le grandi navi “Venezia è laguna” di Roberto Ferrucci di cui ho scritto di recente: le stesse devastanti vibrazioni, di cui tutti tacciono, come se fosse un fatto normale. E invece per Venezia sono mortifere.
Ma davvero è tutto perduto ormai? Non lo so. Spero tanto che Pietro Codato si sbagli. Di certo, l’esempio di resistenza civile offerto da Tudy Sammartini è per tutti noi uno spiraglio di luce nel cupo futuro di Venezia, un’esile speranza che si staglia indomita sul grigiore della rassegnazione a ricordarci che il nostro destino non può essere lasciato in balìa della stupidità umana – che, come scriveva il grande Carlo Maria Cipolla, è faccenda perniciosa assai – ma dobbiamo riprendercelo per cambiarlo.
Sipario finale sull’epica immagine di Tudy che, indicando dietro di sé una delle navi mostro che transita nel Canale della Giudecca, la liquida con una geniale esclamazione:
«Una puttanata!»
Grazie, Tudy.
Ecco, dunque, miei cari ottusi plutocrati da strapazzo, che credete di aver capito tutto, e invece di Venezia non avete capito un bel niente: statene certi, prima o poi una risata vi seppellirà.