Il poliziotto e il giornalista: l’accoppiata irripetibile

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Se è vero che il primo amore non si scorda mai, io affermo senza tema di smentita che anche la prima presentazione del primo libro resta nel cuore in aeternum.

Mi riferisco alla presentazione di Acqua morta alla libreria Coop di Pesaro dello scorso 22 ottobre, giusto un mese fa. La prima in assoluto e, a tutt’oggi, anche l’unica. Di certo irripetibile, per la presenza contemporanea di un poliziotto (Silio Bozzi – capo della Squadra Mobile di Pesaro) e di un giornalista (Roberto Damiani – cronista di giudiziaria de il Resto del Carlino). Il sogno di ogni giallista…

Per non rischiare che il ricordo sbiadisca ho deciso di mettere nero su bianco i passaggi più significativi dell’evento approfittando di una registrazione audio pirata (ma integrale) fatta a mia insaputa dall’amico Samuele a beneficio di un altro caro amico, Davide, convalescente e impossibilitato a partecipare. All’audio si sono aggiunti alcuni brevi spezzoni video, e il risultato, dopo, lo confesso, giorni e giorni di duro lavoro di sbobinatura ai limiti dell’assurdo, per via dell’audio pessimo (l’amico se ne stava purtroppo in ultima fila…) ma non soltanto per quello, il risultato dicevo è il resoconto “romanzato” che potete leggere qui. Naturalmente ho prodotto anche uno sbobinato integrale, che conserverò gelosamente nel mio archivio, ma alquanto improponibile (devo ammettere che mai come stavolta mi sono reso conto della distanza che esiste tra il parlato reale e il parlato scritto). Insomma, un lavoro improbo che, statene certi, non rifarò mai più…

Prima dell’inizio

Arrivo in libreria con ampio anticipo, roso dagli eterni timori di chi si trova in quelle situazioni. In quanti verranno? La sala si riempirà? E, non ultimo, che ne sarà di quelle enormi pile di volumi all’ingresso che il libraio tiene d’occhio con una certa preoccupazione?

Per fortuna non ho il tempo di rimuginare su tali laceranti questioni, perché comincia ad arrivare gente, amici soprattutto, e mi concentro sulla firma delle copie. Si forma subito una piccola fila e mi rendo conto con terrore che quelli si attendono che io scriva una frase di senso compiuto, possibilmente originale e magari personalizzata. Quante volte lo avevo immaginato, ipotizzando frasi meravigliose, equilibrate e piene di significato, profonde ma al tempo stesso brillanti. Di fronte al primo frontespizio intonso ho dieci secondi di panico. Tabula rasa. Come quando studi per mesi e poi di fronte al prof che si prepara a esaminarti ti accorgi di non ricordare più nulla.

Dieci secondi, niente più, per fortuna. Uno sguardo all’amico che mi osserva, mente locale su come si chiama e chi è, e poi giù a scrivere di getto, in piedi, in equilibrio precario. Il risultato non è poi così male. Forse basta non pensarci su troppo, lasciare che a scrivere sia l’inconscio. Fuori uno, avanti un altro. Stesso sistema, pare funzionare. Fuori due avanti il terzo. Evvai! Così almeno non penso a quello che mi aspetta…

Il problema è che a un certo punto, mentre sono assorto nell’operazione, alzo la testa e mi ritrovo davanti un viso conosciuto. So benissimo chi è ma non riesco ad articolare, lei presume che io non ricordi, e si presenta. Eccomenò, se mi ricordo! Maria! Un abbraccio che non finisce più. E poi, subito, io: “Dov’è quell’altra?”. Eccola, nascosta dietro a una colonna, Lidia! Un infarto rischio, devo sedermi. Insomma, se volete sapere chi sono quelle due, leggete oltre.

A questo punto la sala è quasi piena, direi che almeno questo non sarà un problema. Anzi, mentre continuo a firmare copie, e arriva Damiani, e poi Bozzi, i posti a sedere si esauriscono e la gente comincia ad assieparsi nelle retrovie. Solo in seguito scoprirò che raramente la sala si riempie così, al punto che alcuni non riusciranno a seguire la presentazione. Grazie di cuore.

Doverosa nota: il lettore deve sapere che durante tutta la serata il pubblico si è profuso in risate scoppiettanti che manco a Zelig. Un vero spasso. Lo dico ora, perché nella trascrizione non le ho annotate…

Si comincia…

«Buona sera a tutti, tra un poliziotto, uno scrittore e un giornalista, comincia il giornalista» esordisce Roberto Damiani, il cronista di giudiziaria del Carlino. «Ho conosciuto Michele in virtù di questo appuntamento, ho conosciuto il suo modo di scrivere, il suo romanzo. Ma soprattutto, attraverso Acqua morta ho conosciuto Venezia! Perché contiene una descrizione della città che nemmeno l’ultima edizione della guida del Touring riesce a essere così precisa. Ed è una precisione che significa amore per quella città.

«Michele si è inventato uno strano binomio. Il protagonista si chiama Nicola Aldani, commissario della Squadra Mobile, e uno dei suoi migliori amici è Claudio Danieli, giornalista della cronaca giudiziaria del Gazzettino. Stasera noi qui siamo il capo della Mobile di Pesaro e il cronista di giudiziaria del Resto del Carlino, siamo in qualche maniera lo specchio di Aldani e Danieli.»

Damiani si sofferma poi sui due aspetti del romanzo che lo hanno più colpito. «Quando leggo un libro, e mi si descrivono i personaggi, con la loro sensibilità, con il loro modo di intendere la vita, be’, dico che quel libro ho fatto bene a comprarlo, al di là della trama.» E inoltre: «Il colpevole, che solo alla fine si rivelerà, davvero andiamo a trovarlo in fondo, anche perché prima non c’è modo di capire, insomma, non c’è il maggiordomo. È questa, secondo me, una delle grandi chiavi di successo di chiunque voglia scrivere un romanzo.» E infine conclude: «Quindi, da parte mia c’è un semaforo assolutamente verde per poterlo rivedere in libreria col suo nome e con le nuove inchieste del commissario Aldani.»

Prende la parola Silio Bozzi. Immaginate una persona che parla lentamente, in tono pacato e con una marcata cadenza siciliana che dà alle frasi un tocco che la parola scritta fatica a rendere. In mano tiene una copia di Acqua morta dalle cui pagine spuntano decine di postit.

«Premetto che una delle cose più penose per un essere umano è presentare il proprio libro.» Mi guarda negli occhi. «Immagino che tu confermerai…» Certo che sì, confermo! «È una cosa penosa in sè. Un libro si legge. Nella mia visione l’autore non dovrebbe neanche esistere, i libri si dovrebbero, in un certo senso, scrivere da soli.

«Aggiungo che ho frequentato per anni molti grandi scrittori, e quindi mi è capitato spesso di essere chiamato a presentare dei libri, però da tempo non lo facevo più, per tanti motivi… Questo è un libro interessante. Se sono qui è perché è un libro che merita. Sono solito parlare in maniera molto spiccia e diretta. Io e Michele ci siamo incontrati solo un paio di giorni fa, in un bar, ma giusto per vederci in faccia.» Si volta verso di me. «Io cosa ti ho detto? Non mettiamoci d’accordo. Già è una cosa abbastanza artificiosa, perché un libro va preso e letto. Deve vivere la sua vita fatta di parole, di idee, di immagini. Anzi, gli ho detto subito che la prima cosa che ho detestato di questo libro è la sua fotografia, non si può vedere.»

Qui glisso sulla questione foto, sulla quale Bozzi più volte infierirà bonariamente. Non ha tutti i torti, in effetti, e potrei anche spiegare, ma meglio sorvolare…

Continua: «Col libro ho fatto un clinch, come si dice nel gergo della box, l’ho oltraggiato, l’ho segnato, io lavoro così per queste cose. C’è un passaggio che, in certo qual modo, rivela la qualità, la pasta autentica di chi ci sa fare con le parole, di chi riesce a costruire questo canale dal mondo interiore al mondo dell’espressione. Leggo un brano da pagina 90.

Gli ultimi brandelli di grigio annegavano nel nero della notte rischiarata dalle macchie giallastre dei fanali.

«Basterebbero queste due righe, io ho l’idea precisa di ciò che vuoi dire, in questo dilagare dell’immagine. Ancora.

Il campo, dominato dal sobrio profilo della cinquecentesca chiesa di San Felice, si allargava a cavallo della Strada Nova. L’aria calda era carica degli odori portati da una leggera brezza proveniente dalla terraferma. Odore di erba umida e alberi fioriti, di asfalto bagnato e legna bruciata. Andavano goduti fino in fondo, perché il vento leggero poteva cambiare direzione in qualsiasi momento e portarsi dietro i miasmi idrocarburici di porto Marghera.

«Direi che questo è il biglietto da visita di uno scrittore autentico. Ora, uno scrittore autentico ha dato vita a personaggi che sono autentici. Devo dire che il vero protagonista non è Aldani, in realtà. La vicenda è complicata, si intreccia, si rivela, si disvela, si nasconde, fino poi a trovare lo scioglimento delle fila, del plot, nel finale, come in tutti i gialli che si rispettino. Come accennava l’amico Roberto, la vera protagonista è Venezia, una Venezia che è quasi correa, che è complice, che ammicca, che osserva, che nasconde, che rivela. È un grande contenitore… acquatico, dell’acqua ha le misteriose proprietà.

«Un altro elemento che io trovo straordinario di questo romanzo, è la cosa meno straordinaria, cioè l’ordinarietà di Aldani. Io non ne potevo più di questi commissari che fanno di tutto, che sono dei cuochi, o dei gourmand, o vivono in posti improbabili, oppure fanno sesso sfrenato… Tra i commissari di ultima generazione Aldani è una persona normale. Per la prima volta sento parlare di mutuo, un passaggio che ho segnato con tre punti esclamativi, per non dire dei cartoni di un trasloco – ne so bene qualcosa – che perseguitano Aldani, ne popolano in maniera selvaggia i sogni e le ansie. È un personaggio che vive in piena e profonda consapevolezza, ma senza particolari frustrazioni, il proprio stato, la propria condizione di poliziotto all’interno di una Questura, con tutti i problemi di una Questura.

«Devo dire che l’autore manifesta una buona conoscenza dei meccanismi procedurali, soprattutto nell’aspetto comportamentale che regna, che vige, all’interno di una realtà complessa come quella di una Questura o di una Procura. Abbiamo qui in sala l’ex questore (per me sempre questore) Napolitano, un grande questore, la cui presenza nobilissima e amichevole mi dà lo spunto per accennare ai rapporti che ci sono tra Aldani e l’Autorità. Non è il solito cliché col questore più politico che poliziotto, che strizza l’occhio al potente, che quindi umilia, un po’ in stile Montalbano, un burocrate, burbero, ignorante, pomposo, vanamente post borbonico. Devo dire, non se ne può più, non se ne può proprio più. Invece, nel romanzo di Michele, il questore è una persona, che è capìta, che ha un passato, innanzitutto, da poliziotto. Questi questori che non hanno un passato, tu li vedi là, arcigni, monumentali, rappresentano solo se stessi e il potere, invece qui c’è lo sforzo intelligente e garbatissimo di Aldani di cogliere la persona, l’investigatore, il poliziotto nella carriera del questore, quasi di sgranarlo, di portarlo a una realtà più autentica.

«Approfitto sempre del mio clinch col libro per prendere qua e là, pescare, come si fa col sacco della tombola, qualche numero, qualche curiosità, che io non sapevo. Per esempio, non sapevo… Sia chiaro, ho da fare anche qualche tiratina d’orecchi, quando parli del Gabinetto di Polizia scientifica di Padova, quello del Triveneto…»

A questo punto non posso esimermi dal dire che…

«Non sapevo che la presentazione sarebbe stata fatta dall’ex responsabile del Gabinetto di Polizia scientifica di Marche e Umbria, uno dei motivi per cui non ero sicuro che chiamarti fosse una buona idea…»

«Sì, fui trasferito ad Ancona da Bologna e lo diressi per qualche tempo. Comunque devo dire che come esordiente, che poi è una parola brutta esordiente… No no, come opera prima, mi piace opera prima, questo incipit letterario con una casa editrice importante, ha dimostrato una fortissima solidità, che non è improvvisata ma è frutto di una ricerca, di una attenzione, di una cura, che non è da tutti.

«Dicevo, io ho appreso questa cosa che non conoscevo nonostante i miei 25 anni di permanenza – resistenza… – all’interno della pubblica amministrazione. A Venezia ho fatto, pure, qualcosa, però non al punto da conoscere questi particolari. Leggo.

«Non possiamo aspettare. Vedi se c’è qualche sepolina da queste parti e facci venire a prelevare al molo.»
«Va bene, dottore.»
«Scendiamo», ordinò.

«Sepolina! La prima volta che lo sento… Forse un errore di stampa? Strano.»

«Ci hanno provato anche in casa editrice a segnalarlo come refuso…»

«E poi lui spiega» continua Bozzi.

Seppiolina, in veneziano sepolina, è il nomignolo con cui tutti chiamano i vecchi gloriosi motoscafi in livrea con colori “di istituto” bianco e azzurro in dotazione alle volanti lagunari, il pronto intervento in versione veneziana. Il soprannome è un affettuoso tributo alla loro bruttezza: sono, in effetti, davvero sgraziate…

«È splendido, perché dà e toglie, non sta mai fermo, fa un passo avanti e uno indietro! Ha un suo modo molto elegante, molto veneto, molto dolce, di accompagnare il lettore nel corso della lettura. Perciò questa sepolina è stata per me una sorpresa.»

«Io devo dire una cosa, se posso aggiungere» interviene Damiani. «Il commissario è descritto magnificamente, i dettagli sono splendidi, con il giornalista, però, Michele ha rappresentato un mondo fantastico.»

«Fantastico o di fantasia?» chiedo io immaginando già dove voglia andare a parare. Ci pensa Bozzi a stemperare la situazione. «Vabbe’, posso dire una cosa? Un bel rompicoglioni! Ma così dev’essere! Quando mi chiama Damiani, lui ha questo stile – che poi ci vogliamo bene, noi – così sornione, è irritante perché io so che lui sa, che lui sa qualcosa più di me, fa le domande ma già conosce la risposta.»

«Però qui siamo un passo avanti, siamo al giornalista che dice, che svela, a volte, delle situazioni, dei retroscena che il commissario non conosce, e alla fine ottiene…»

«Ma non è forse vero che molte volte tu ne sai più di me?» incalza Bozzi.

«Be’, sì, ma può essere un caso… Comunque, nel romanzo alla fine il giornalista ottiene il servizio completo chiavi in mano e questa per me è fantascienza! Se si arrivasse a questo ne sarei felicissimo, può darsi che Michele abbia soltanto anticipato i tempi.»

Bozzi riprende a sfogliare la sua copia di Acqua morta.

«Apprezzo molto questo.

«Manin, io non mi ricordo un cazzo e con l’età peggioro»

«Questa è una cosa che dico sempre io. Aldani è un commissario assolutamente vero. Sono dati assolutamente di routine.

«Da investigatore, poi, devo dire che se in Italia dipingi una situazione catastrofica, questo Paese ti aiuta perché quella situazione si realizza subito. La trama si snoda attorno a un intreccio politico, economico e criminale al tempo stesso. L’abilità dello scrittore investigatore, dell’investigatore scrittore, sta nel dipanare attraverso strumenti razionali, molto umani ed esperienziali, la matassa. È molto accurata l’analisi che fai di quella situazione di intreccio politica, economia e finanza. Da dove l’hai tirato fuori? Non dirmi che hai improvvisato perché non ci credo…»

«Mi sono molto documentato, nel senso che ho cominciato a scrivere basandomi su mezze idee. Mentre andavo avanti con la storia approfondivo la tematica, e mi sono accorto che le mezze idee effettivamente avevano un riscontro concreto al punto che mi son trovato in sintonia con delle cose che stavano accadendo, e così piano piano…»

«Avevi degli informatori?»

«No! In realtà bastava leggere i giornali degli ultimi 5, 6, 7 anni…»

«Non avevi il Damiani veneto?»

«Confesso, no. Ma l’intreccio affari politica era nell’aria. Ho scritto il romanzo nel 2012 e già cominciavano i primi sentori dello scandalo che nel 2014…»

«Hanno arrestato tutti.»

«Infatti, hanno arrestato tutti. Però non dico, altrimenti poi si svela troppo. Anche la famosa banca, il nome è cambiato…»

«Si può dire BancaVeneta? O ci querelano?»

«Sì sì. In realtà si chiama VenetoBanca, quell’altra… La fonte d’ispirazione è quella.»

«La querela è vicina… Sento odore di avvocati. Domanda: sapevi perfettamente di correre il rischio di raffreddare, con questo tipo di trama, la polpa poliziesca tout-court? Lo hai tenuto presente questo rischio?»

«Non consciamente. Io l’ho scritto perché andava scritto, poi dopo ho asciugato parecchio, ma alla fine la sostanza è rimasta, fa parte integrante della storia.»

«Così hai riscaldato i personaggi, hai fatto sì che fossero ancora più umani e l’affrontassero in maniera ancora più umana dal loro punto di vista. Poi altre cose» aggiunge Bozzi riprendendo a sfogliare il libro. «Il questore. Questo è un passaggio che mi è familiare, e guardo il questore Napolitano.

Il questore non gli telefonò, ma lo fece convocare “all’istante” nel suo ufficio. L’agente aveva riferito proprio così: «All’istante».

«È vero! È vero, signor questore. Il questore non è che… Il questore convoca all’istante e tu scendi o sali, dipende dalla posizione che hai all’interno della Questura. Questa scena mi ha riportato alla memoria – perché poi la scrittura è terapeutica, ma anche la lettura ha una sua funzione terapeutica – quando ci convocava il grande Arnaldo La Barbera. Si creava un clima di tensione con La Barbera, che non era umano, io vedevo miei colleghi, persone anche più anziane di me che quasi si mettevano a piangere “cosa vorrà, cosa vorrà”… E cosa potrà mai volere!

«La convocazione all’istante del questore è una cosa reale e rappresenta un terrore concreto per tutti noi funzionari, che non sappiamo a cosa andiamo incontro, è il nostro ignoto quotidiano. Ma è giusto, i questori devono rappresentare un po’ questa figura mitologica…»

«Invece io» interviene Damiani «vorrei parlare della moglie. La moglie del commissario è sempre al di là del telefono, è una figura indefinita, che sta lì e aspetta che il marito torni. Normalmente nei romanzi, soprattutto di questo genere, la moglie ha un ruolo – senza scomodare Maigret – molto vicino al protagonista, non dico che risolve o che consiglia sempre giusto, però… qui invece tu la tieni al di là dell’acqua, a Mestre, non la fai venire per niente a Venezia. Perché?»

«Ma, forse perché lei lo cazzia sempre, quindi è meglio se se ne sta distante. Il fatto è che la moglie riesce sempre a toccare i nervi scoperti di Aldani, perciò le telefonate finiscono spesso bruscamente.»

«Ritorniamo al mio passatempo» riprende Bozzi. «È un libro che mi ha riportato alla mente un episodio della mia carriera quando in una occasione chiesi e ottenni di poter rifare un esame autoptico, questa è una cosa che sembra paradossale, e invece io l’ho vissuta. Ma veniamo alle dolenti note del Gabinetto di Polizia scientifica… Sembra una cosa brutta e invece è una specialità della Polizia.

«Ci vorrebbe l’analisi del DNA, ma di questi tempi nessun funzionario la prescriverebbe, se non fosse proprio indispensabile; costa troppo. E poi bisogna mettersi d’accordo col Gabinetto regionale di Padova. Sai, quelli sono un po’ rognosi.»

«Grazie…» commenta ironico Bozzi. Per fortuna, grazie alla registrazione abusiva, scoprirò che in fondo alla sala l’ex questore commenta: «Non è che ha sbagliato poi mica tanto, eh…».

«In effetti» prosegue Bozzi «il profilo del DNA non lo fanno lì, noi ci appoggiamo a Roma perché è un tipo di analisi particolare, e si verifica un effetto imbuto a causa della confluenza di moltissime analisi. I Carabinieri sono organizzati in maniera diversa, hanno dei centri più funzionali perché distribuiti in maniera più logica sul territorio.

«C’è poi un’aspetto molto interessante, una lieta via crucis del protagonista per i bar e i locali, che vengono descritti con tutte le pietanze e con tutte le loro caratteristiche, che dà la dimensione viaria, labirintica, di Venezia. Perché ogni tanto bisogna fermarsi.»

«Ma hai fatto dei sopralluoghi? L’hai ricostruita in qualche maniera?» chiede Damiani.

«Non lo dirò mai, neanche sotto tortura» rispondo con sicumera.

«È impossibile che se li sia inventati» incalza Bozzi.

«L’importante è che uno sia convinto che sia vero…» dico io per chiudere il discorso.

«Non devi spiegare troppe cose…». Grazie Bozzi… «Leggo un altro brano.

Il commissario era intento a spalmare una salsa beige chiaro, abbastanza consistente, sui pezzi di carne bollita.
«Credo si ricavi da una radice. Roba che si usa molto dalle parti di Belluno, ma anche in pianura si fa apprezzare. Gli dà un bel piccantino al lesso, che di suo sarebbe insipido. Dovresti provarla.»

«Io mi sono segnato una serie di cose, poi ho controllato. Tutto vero. Non esageri mai. Come non esageri col dialettismo. Io personalmente non lo amo, ma l’ho trovato molto garbato, limitato, comprensibile, gradevole.»

«Ho cercato di limitarmi molto. D’altra parte, non è che si parli italiano, a Venezia.»

«Che intenzioni hai per il futuro?» mi chiede Damiani cogliendomi di sorpresa. Raccolgo le idee. «Ho già scritto il secondo romanzo e ora aspetto che il mio editor mi dia un responso. Ha detto che di solito il secondo è facile da scrivere, viene bene a prescindere. Il terzo, normalmente è un disastro. Questa cosa un po’ mi spaventa, però, per rispondere alla domanda, direi che persevero.»

«Il protagonista rimarrà nei tuoi prossimi romanzi oppure…?»

«Assolutamente sì.» Qui Damiani cerca di estorcermi qualche notizia aggiuntiva , ma io mi rifiuto di rispondere. Qualcuno in sala, avvezzo forse ai procedural thriller, commenta: «Si avvale della facoltà di non rispondere».

«Devo dire» riprende Bozzi «che la visione di Venezia non è priva di una certa malinconia di fondo, che non è mai esplicita. Perché Venezia ha tediato tutti con quel senso di morte. Aschenbach, Thomas Mann, Morte a Venezia… da lì è stata una cosa… due palle… Devo dire che c’è sempre il rischio, quando si parla di Venezia, di scivolare, di smottare nella banalità, nella convenzione, nel cliché. E invece devo dire che lui si mantiene sempre con un grande filo di sobrietà, sopra le cose, e con qualche incursione dolce amara, anzi direi proprio amarotica, su Venezia, sul passato che confligge col futuro, quello che Venezia rischia di diventare. C’è un passaggio che a me è piaciuto molto e che in maniera sintetica restituisce questo senso di rabbia, di angoscia e anche di rimpianto.

Aldani annuì. «Il futuro di Venezia è un luna park per turisti. E quello dei veneziani è la terraferma…»

«Mi sembra un’espressione molto felice, ahimé molto aderente a quella che è la situazione attuale. C’è una scena in cui c’è una protesta contro uno di questi mammuth del mare che rovinano la laguna, devo dire che non c’è mai questo compiacimento, questa voluptas dolendi, è tutto uno schifo… e invece no, c’è sempre una posa razionale del narratore che è notevole e che costituisce uno dei suoi tratti salienti, delle sue caratteristiche principali. Che dà l’idea della solidità del personaggio e quindi di tutto ciò che lui fa.

«Una parola sui collaboratori di Aldani. Immancabili i napoletani e i meridionali, risultato di una vasta opera di meridionalizzazione. Abbiamo infettato prima l’Italia e poi il resto del mondo…» scherza Bozzi. «Vitiello. Di dov’è esattamente?»

«Laziale. Si autodefinisce tale senza bisogno di specificare ulteriormente.»

«Laziale… Sotto il Rubicone sono tutti… Vabbe’, non si sa… Quindi Acqua morta è un libro che in buona sostanza doveva essere scritto – si percepisce, proprio, questa necessità – e che quindi deve essere letto. È un libro molto interessante, devo ammettere che non me l’aspettavo, ma dopo aver letto le prime 20-30 pagine… Per me è un onore essere qua e parlarne.»

Con una salva di applausi si conclude l’intervento dei relatori. Ho l’impressione che a questo punto la platea si aspetti da me qualcosa di intelligente. Cerco di fare del mio meglio…

Indico Bozzi: «Lui non l’ha detto, lo dico io: è stato consulente di Andrea Camilleri. Ha spiegato a Camilleri cosa non si deve scrivere in un giallo. Non so se mi spiego. Io questo dettaglio non lo conoscevo, l’ho saputo soltanto quando ormai era cosa fatta, perché, devo dire, è tutta colpa dell’amico Marcello che ha ideato e organizzato questa cosa. È andata bene, ma non era così scontato.»

A Bozzi torna in mente qualcosa e sfoglia freneticamente il libro. «Colgo l’occasione della presenza di una mia carissima collega per chiedere, perché io non lo so, non è che so tutto, un parere su un dettaglio che mi lascia un po’ perplesso.»

Quando era passato alla Squadra mobile, terza sezione, Omicidi, reati sessuali e reati contro la persona, era stato costretto a trasferirsi a Santa Chiara.

«La sede è là» risponde asciutta la poliziotta.

«No no, mi riferisco a questo passaggio: “terza sezione, reati contro la persona”.»

«Sì, perché le questure più grandi hanno le sezioni divise in modo diverso dalla nostra che è più piccola. Noi siamo di fascia C, Venezia sarà di fascia B, se non di fascia A.»

L’audio pirata registra un breve scambio di reciproche conferme tra il questore e la poliziotta: «Sì sì, è così» conferma lui. Io e Bozzi non possiamo sentirlo. Io comunque gongolo, non dico nulla e sorrido…

Ci pensa Damiani a sottolineare la cosa. «La precisione, comunque, è un’ulteriore conferma, è una delle caratteristiche su cui poggia il romanzo e insieme alla trama è determinante per la sua riuscita. Una storia inventata, ma i cui ingredienti, positivi e negativi, li troviamo ogni giorno sui giornali. Michele l’ha scritta nel 2012, ma non è cambiato niente negli ultimi tre o quattro anni, anzi, forse qualcosa è peggiorato.»

«Sottolineo questo ultimo passaggio che ne impreziosisce la lettura.» Di nuovo Bozzi sfoglia il libro.

«Già, fare il poliziotto non è un lavoro normale.»

«Grazie, Michele…». Il solito tono ironico…

Damiani incalza e torna sulla questione del giornalista che sa troppo. «Io invece per il prossimo libro mi aspetto di poter vedere il bloc notes del giornalista. Io lo uso come una specie di appendice. Il giornalista non sa nulla, parte da zero ma ha a voglia di tirar giù tutto quello che sente, parlando con tutte le persone che incontra, qua invece arriva spesso imparato, sa troppo, secondo me.»

«È un giornalista ideale» tento l’autodifesa. Ma non serve, Damiani subito demorde. «Hai dato un grande e bellissimo rilievo all’importanza della stampa e del giornalista, per cui non posso dirti che grazie.» Tiro un respiro di sollievo.

Bozzi chiosa: «È un passaggio autentico, sono lavori particolari, i nostri… Non è vero che stampa e giornalisti sono i nemici, dipende da come imposti il rapporto, molto spesso noi abbiamo bisogno della cassa di risonanza della stampa per promuovere determinate azioni o determinate cose che noi diciamo. Certo, ci sono cose che si possono dire, altre no, ci sono fatti che non vanno detti, loro vanno incontro alla notizia, noi dobbiamo un po’ aggirarla, a volte nasconderla.»

«Sicuramente quello che la gente legge ogni giorno sui giornali» aggiunge Damiani «fatti di cronaca o di giudiziaria, notizie di arresti o di processi, è tutto frutto di un lavoro di ricerca e di impegno davanti alla porta di un giudice, di un tribunale, di un commissario o dietro a un telefono a chiamare quelli che possono confermare una storia. Tutto ciò poggia su un fatto: se io sono a conoscenza di un fatto devo cercare conferme, il mio dovere è scrivere una notizia certa, e quello del capo della Mobile è un ruolo importante perché si tratta di un professionista a cui chiedo le conferme, e finché non c’è la conferma non c’è la notizia. Michele in questo romanzo ha evidenziato un rapporto di chiarezza, di trasparenza, ognuno fa il suo mestiere, cerca di farlo bene, e quindi i risultati poi arrivano. L’opinione pubblica deve sapere, grazie al duro lavoro della Polizia e alla tenacia del giornalista. Insomma, Michele, hai centrato con la tua freccia diversi bersagli e noi te ne stiamo rendendo grazie.»

Sono senza parole. Meglio, non c’è niente da aggiungere.

Mi chiede Damiani: «Profezia pret-a-porter: Acqua morta diventerà un film…?» Sorrido senza rispondere. Dallo sbobinato apprenderò che qualcuno nel pubblico esclama: «Una serie!». E vabbe’… Segue uno scambio di battute sul titolo del romanzo, che in origine era Acque morte. A me piace anche di più al singolare, dico, e spiego che morta è l’acqua della laguna. È un termine tecnico.

Bozzi conclude con un: «Il romanzo davvero non è male. Michele se lo merita, incoraggiatelo.»

Ci avviamo alla conclusione, ma devo aggiungere ancora un paio di cose. «Vi ringrazio molto, voi due e Marcello, che intravedo laggiù, l’artefice, l’ideatore di tutto ciò. Vi racconto un episodio. Per conoscere Damiani sono andato a stanarlo in redazione. Gli ho detto della presentazione, e lui la prima cosa che ha fatto è stata afferrare il cellulare dicendo “Chiamo Silio”, anche se poi non gli ha parlato subito di questa mia richiesta.»

«È vero! È vero!» conferma Damiani sorpreso, forse non immaginava che io ricordassi quel dettaglio.

«Già, la prima cosa che ha chiesto a Silio è stata: “Ci sono novità?” su non so quale vicenda, ed è uscito direttamente in strada…»

«Una cosa istintiva…» ride Damiani.

«Io vi ringrazio, le cose che avete detto sono per me importantissime, anche perché dette da un poliziotto e da un giornalista, e che poliziotto e che giornalista…»

«Grazie, Michele» dice Damiani. «Appuntamento al prossimo romanzo.»

«Voglio ringraziare tutti i presenti. Ci speravo che foste in tanti, ma una cosa così non me l’aspettavo proprio. Ora però devo dire una cosa importante e bevo un sorso d’acqua.

«Sono venute a trovarmi due persone, direttamente da Napoli, senza avvertirmi, due persone che non ho mai conosciuto di persona, che ho visto solo in fotografia, che tre anni fa hanno avuto l’onere, perché all’epoca era un onere, di leggere, anche più volte, Acque morte. Mi hanno fatto da editor. Sono delle amiche. Sono li sedute, Lidia e Maria, e mi hanno fatto venire un coccolone quando le ho viste. Me le sono trovate davanti e mi hanno detto: “Siamo qui”. Io, fino a due minuti prima, non sapevo nulla. Tutte e due scrivono e mi hanno aiutato in molte cose, da inesperto, a togliere le tante ruvidezze presenti nella versione primigenia del romanzo. Grazie.

«E ora, davvero un’ultima cosa. Tutti mi chiedono: dove scrivi? Io non scrivo a casa perché è impossibile, e l’ho pure dichiarato in appendice al libro. Il romanzo l’ho scritto in un bar. Qui stasera c’è una piccola delegazione di quel bar dove ho scritto il 95% di questa roba qui» indico il libro che Bozzi tiene ancora in mano. «Scritto con un portatile allo stesso tavolo dello stesso bar.»

Damiani è incuriosito: «E la gente passava e chiedeva chi è quello lì?»

«Sì sì, proprio così! A un certo punto hanno cominciato a preoccuparsi, è venuto da me il direttore a chiedere informazioni, io mi sono presentato ufficialmente, “guardi che sto solo scrivendo un romanzo”, gli ho detto. “Ah, allora va bene…” ha risposto il direttore rassicurato.

«Quanto ti è costato in caffè?» chiede Bozzi.

«Penso che non rientrerò mai della cifra.»

Damiani è perplesso. «Scusa, perché il bar, come fonte di ispirazione?»

«Non so. Io sono veneto, quindi per me frequentare i bar è un’abitudine atavica. Io sono abituato a stare fuori, un po’ come il commissario Aldani. I bar, i caffè, per me sono una cosa normale, teutonica o austroungarica, se vogliamo. Qui a Pesaro lo spirito è un po’ diverso, ma mi sono adattato.

«Ma se stai due minuti in più nel bar, ti cacciano?» scherza Bozzi.

«Ho trovato un posto dove vado negli orari morti…» sorrido. «Nel libro ho ringraziato uno per uno i ragazzi del bar. Qui ci sono Michael e Giulia, laggiù. Insomma, è tutta colpa loro.»

«Il bar è una pratica nobile» commenta Bozzi. «Voi forse già lo sapete, ma buona parte del Gattopardo fu scritta da Tomasi di Lampedusa al bar Mazzara.»

«Me lo sono scelto bene, il bar. Purtroppo a volte capita che il mio tavolo sia occupato…»

«Sempre lo stesso tavolo?» chiede Damiani sempre più perplesso.

«Sì, sempre lo stesso. Non è che mi siedo a un altro tavolo. Vado via. Bene, siamo fuori tempo massimo. Con questo direi che ho proprio finito.»

Fine della storia

Si chiude così una serata indimenticabile. Scoprirò solo dopo che in fondo alla sala qualcuno aveva commentato così quella mia ultima frase sul tavolo del bar: «È un po’ da serial killer…».

In effetti, anche fare lo scrittore non è un lavoro normale.

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